Dopo la sentenza della prima sezione della Corte di Cassazione che, lo si voglia o no, ha sdoganato in Italia la
stepchild adoption anche per le coppie omosessuali, è giunto il momento che tutti, dico tutti, e quindi non solo i cattolici, si pongano la domanda radicale, quella continuamente rimossa, ma che è l’unica che davvero conti: cosa giustifica il potere del giudice di assegnare a un uomo o a una donna un figlio (adottivo) e di assegnare a un bambino o a una bambina un genitore (adottivo)? È semplice, rispondono i positivisti: la legge. Ma per gli antipositivisti a questo punto si deve spostare un po’ più in su la domanda: cosa autorizza la legge a assegnare ruoli adottivi? È semplice, rispondono in coro tutti: il superiore interesse del bambino (abbandonato o meno che sia). Ma si potrebbe spostare ancora "più in su" la domanda? Certo che sì può, basta chiedersi come si misura il superiore interesse del bambino. A questo punto la catena delle domande e delle risposte sembra finalmente interrompersi: entrano in scena, per rassicurarci, fornendoci il loro autorevole parere, gli psicologi, i pedagogisti, i cultori di antropologia e chi più ne ha più ne metta. È sufficiente che il giudice si riferisca a loro (o ad alcuni di loro, a coloro che a parere dello stesso giudice esprimono la prospettiva "scientifica" più accreditata, più condivisa o semplicemente quella che più li convince) per dare una motivazione solida e legalmente impeccabile all’adozione.Tutto bene, dunque? No. Infatti, ragionando in tal modo, identifichiamo il superiore interesse del bambino esclusivamente a partire dalla necessità di sanare o potenziare una sua concreta – e in genere triste – situazione di vita (necessità ovviamente imprescindibile) e si perde di vista, come invece in primo luogo si dovrebbe fare, la tutela della sua identità, che andrebbe riconosciuta a partire dalla verità genealogica dei suoi rapporti familiari, ancorché patologici. La verità genealogica può essere conturbante, tragica, lacerante, ma resta pur sempre "la" verità. Invece la verità dei rapporti adottivi è la verità del "come se", una verità per nulla disprezzabile, spesso anzi preziosa, ma a condizione di non utilizzarla per negare o cancellare la verità tout court, che resta sempre e soltanto quella genealogica. Un’adozione è sana, quando il bambino adottato è accolto da un uomo e una donna che lo trattino "come" un figlio e che lui è portato a trattare "come" genitori. La sentenza con cui un giudice crea rapporti adottivi non fonda un’identità genitoriale e filiale (che è pregiuridica), ma fonda piuttosto una nobile
fictio juris che risponde al bisogno di genitorialità di tante coppie sterili (sul piano biologico, ma sul piano spirituale e dell’affettività pienamente e generosamente feconde) e a quello proprio di tutti i bambini, di non essere lasciati soli: una
fictio juris che non dovrebbe mai fondarsi su di un occultamento della verità naturale (imponendo, ad esempio, o favorendo che venga tenuta nascosta al bambino la verità sulle sue origini), né esprimere con un atteggiamento di vera e propria indebita arroganza , la pretesa di qualificare in modo definitivo, assoluto, inappellabile e potestativo la genitorialità. Con la
stepchild adoption il giudice, come ha fatto la Cassazione, può imporre a un bambino (che già possiede una madre naturale) non un padre, ma una seconda madre: una donna che solo in virtù della sentenza potrà esigere non solo di farsi chiamare "madre" dal bambino, ma anche di essere socialmente ritenuta tale. Qui il processo di arrogante artificializzazione giurisprudenziale della familiarità raggiunge il suo culmine. Si tratta di un processo sconvolgente, non perché l’artificialità sia sconvolgente in sé, ma perché lo diventa quando la si separa dalla verità delle cose (è quello, ad esempio, che succede quando un farmaco chimico, prezioso se usato a fini terapeutici, viene invece utilizzato come stupefacente).Siamo in attesa di una legge che riformi l’istituto delle adozioni: dobbiamo pretendere che il legislatore le dia l’unico fondamento appropriato, che non è quello di nascondere la verità della generazione, ma quella di integrare (e solo quando sia indispensabile) la generazione naturale con quella forma di generazione giudiziaria che chiamiamo adozione. Ci aspetta tutti, ma proprio tutti, una battaglia estremamente difficile, per affrontare la quale bisogna quindi evitare di utilizzare argomentazioni controvertibili e soprattutto di porre domande sbagliate. Che un bimbo, allevato da due donne, abbia una crescita serena e equilibrata può essere possibile (o almeno non è possibile dimostrare, in linea di principio, il contrario), così come è ben possibile che un partner ami profondamente il figlio biologico del compagno o della compagna. Ciò invece che non è accettabile è istituire per sentenza vincoli genitoriali adottivi, che non esplicitino con assoluta chiarezza che si tratta di vincoli legali e sociali che non devono pretendere di sostituire quelli naturali. E meno che mai è accettabile che i giudici (e la legge) pretendano di manipolare, conferendo loro significati artificiali, parole fondamentali, come quelle di "padre" e di "madre", parole che non sono state inventate dal diritto, ma che il diritto ha recepito da un’esperienza antropologica plurimillenaria che lo precede e lo fonda.Favorire equivoci su questo punto non solo non significa tutelare il miglior interesse del bambino, ma – cosa in sé ben più pericolosa – alterare il miglior interesse di ogni società civile, che deve vedere nel diritto lo strumento che la garantisca nella sua identità storica, sociale e naturale e non lo strumento per massimizzare la sua artificialità.